Cenni critici sull'opera di Ermete Lancini
"Ermete Lancini nel 1946, siamo appena usciti dalla seconda guerra mondiale, è già chiaramente allineato sulle frontiere dell’arte nuova.
«Fra le grida e il cascare delle frasche rinsecchite, spunta - ha scritto Giannetto Valzelli sul Bruttanome - più giovane di Cavellini seppure ugualmente cresciuto nell’orbita di Feroldi, un tenero budda di chiaro pelo, il sorriso stemperato da una smorfia di sorpresa: Ermete Lancini. Il suo gesto eversivo si ricollega alla domanda espressa almeno dieci anni prima da Carlo Belli: l’arte, senza essere illogica e amorale, può ignorare il mondo logico e morale per ridursi a una forma pura assoluta»?.
In un articolo apparso sul catalogo della seconda mostra degli artisti della Associazione Artistica Bresciana («Essa aspira - dirà il presidente - ad essere la sintesi dell’arte bresciana in questo primo periodo ricostruttivo di tutti i valori tra i quali quello artistico deve avere ed avrà un peso preminente») Lancini, tra i presenti nella massa delle oltre duecento opere esposte, è già chiaro nel suo pronunciamento per l’arte moderna «quella che si intona - definiva il Salvotti - all’atmosfera dinamica e funzionale del nostro tempo».
Quanto a lui, Lancini, è più categorico: «… il segno è morto con la pittura e l’idea del moderno fabbricatore di forme è una forma soltanto … Questo visionario moderno si è creato delle forme in urto, non calcola i passaggi e ride dell’attrazione melodica dei toni. Esso si esprime molto intensamente e col suo sangue si fa notare in mezzo alla sua civiltà fatta di impressionante, di spettacolare, di atomico. Le sue forme sono le buone forme della sua gente: di quella che ha inventato l’insegna al neon, le bombe traccianti, i grandi boati dell’atomica … Questo costruttore che per esistere rinuncia al pensiero … questo formalista che misura e qualifica lo spazio agisce per impulso collettivo, per una suggestione sociale … Il quadro di questo essere è una creatura organica, è la chimica fredda dei suoi padri stessi».
Il poco più che venticinquenne artista bresciano manda in soffitta Raffaello e «Picasso più morto di lui». Superati i primi anni dell’apprendistato, Lancini s’era già fatto vedere in collettive che qua e là si allestivano in città pur negli anni della guerra, in tresanda San Nicola magari nel ’41 con fantasie suggerite da Ibsen che sconcertavano il critico de «Il popolo di Brescia», l’artista rompe gli indugi, la bagarre è cominciata.
L’apprendistato era stato per altro netto e preciso: da van Gogh a Gauguin, Matisse al tempo dei fauves, gli espressionisti, l’astrattismo di Kandisky, Picasso …
Decine e decine di piccole grandi opere accumulate negli angoli dello studio e della memoria, cose e personaggi visti attraverso gli occhi dei grandi maestri, con un loro piglio tra serio, attonito e divertito quando l’occhio si posa sul ritratto dell’amico, stravolto dal modo moderno di intendere la pittura.
Esercizio entusiasta a ripercorrere le vie dell’arte del ventesimo secolo di là dal proprio orticello concluso, oltre l’intimità della cameretta studio protetta dalla penombra di mura solide, familiare nei mobili di vecchio mogano, filtrante luci discrete, così come il ragazzo quindicenne (siamo nel 1935) la rappresenta in un saggio pittoricamente rimarchevole nei toni fondi, già alieni da compiacenze.
Poi, appena terminata la guerra, il gran respiro della libertà ritrovata impone di per sè a Lancini lo stile a lungo cercato. Composizioni oggettive asciutte come l’affresco, la città vista nei suoi elementi compositivi come un insieme di tarsie giocate su toni in prevalenza chiari o nettamente fondi, dai bianchi, i giallini, i bruni decisi … Il mondo di fuori analizzato e costruito in assoluto rigore formale, i trulli di Alberobello o la veduta del Duomo con le case intorno. Ma lo stile di Lancini è quello dell’intellettuale in continua analisi e ricerca.
Una ventina d’anni di irrequietezze espressive, un’ansia di arrivare ad essere un lucido testimone del suo tempo, al di là di se stesso. Estremamente riflessivo, «inquieto», nient’affatto indulgente con la propria arte, prova e riprova. E’ naturalmente dalla parte dei bresciani che come lui vogliono smettere gli abiti provinciali, l’Achille Cavellini, Enrico Ragni, i fratelli Ghelfi, la Pierca, Vittorio Botticini, Oscar di Prata …; la lotta si farà serrata in occasione del premio Brescia (1952/53, quarto premio di Lancini alla prima edizione), fino ad una rottura, già latente nelle prime mostre del dopoguerra, fra il gruppo dei nuovi e gli altri.
Così in luogo delle collettive alla embrasson-nous, personali sempre più spesso dimostrative, su una sponda e sull’altra, senza possibili ponti.
Lancini tuttavia non farà mai personali. Continuerà la sua attività con tenacia a volte scontrosa, facendosi vedere di tanto in tanto in premi e concorsi, sovente ben accolto, ma poi via, nel segreto dello studio di via San Giovanni, tra le colonnine quattrocentesche della sua casa, dove il senso della storia, del tempo, si respirano senza posa appena apri gli occhi.
Una sorta di misantropia, di riluttanza a tutto ciò che di venale si accompagna al quadro come oggetto di valore, tende a farne sempre più un isolato.
L’adesione alla collettiva del Bruttanome (novembre 1949 alla Loggetta) e poi nelle sale del pittore Virgilio Vecchia in cui si dichiarava trattarsi di artisti giunti «ad un certo punto della loro vita a preferire alla vendita preventivata o al concorso promiscuo dei visitatori un’espressione collettiva riservata e liberata da ogni convivenza con interessi che non siano quelli dell’arte», non era stata per lui l’occasione di una mostra singolare, ma qualcosa di più autenticamente sentito e sofferto «un atto di fede nella morale che regge anche i rapporti del mondo dell’arte, avendo a testimonianza una comunione … esempio felice di ciò che tanto spesso ma vacuamente è stato chiamato solidarietà tra artisti».
Dai ritratti, in cui si era sovente affissato, alle presentazioni sacre fuori degli schemi usuali e qualche volta guardate con sospetto per le novità formali in esse presenti, alle numerose vedute, sempre più orientate all’astratto, alle prove di affresco sparse qua e là dove l’artista pare esprimersi, per innata attitudine al particolare tipo di tecnica, con bella scioltezza e fantasiosa grazia, dopo il cinquanta Lancini si cimenta in una lotta ancor più dura sul paesaggio che diventa mano a mano un’ardua articolazione di pennellate che si incrociano, si oppongono, si allineano a volte, rossi, blu, gialli, verdi aspri, nell’immediatezza dell’impulso, in un tentativo di presa così rapida da scavalcare ogni trepidazione del sentimento per giungere a risultati assolutamente autonomi.
E la pennellata prodotta dal gesto quasi automatico si fa sempre più aggressiva, si perdono i contorni nei quali in certo modo si poteva ancora configurare una veduta di mare, di montagna, uno scorcio di città. Nell’opera entrano attraverso pezzi di giornale, stagnole, argenti, dorature, cascami di vario genere, urgenze espressive di tipo nuovo, tattili e visibili insieme, si direbbe, sulle quali l’artista lavora ancora con sintesi di colore, a stesure piatte, senza riferimenti individuabili che non siano un alfabeto nuovo di rappresentazione, in cui l’artista lascia tuttavia ancora un’impronta di sè con improvvisi grovigli, tensioni in atto, a fissare attimi di irritazione interiore.
Poi il discorso va altrove. La società delle immagini costruite uguali per tutti ha preso il sopravvento. Carte da gioco, soldatini, album di fumetti, immagini di uso commerciale, piacevoli e insieme assurde, compongono le vetrate laiche dell’oggi, in un estremo tentativo operato dall’artista per decantarle con l’ironia, elevandole magari a forza di fantasia.
Le successive esperienze, quelle che pochissimi hanno visto, ma in genere quasi tutta la produzione di Lancini dell’ultimo decennio si è creata nella solitudine diffidente dello sguardo altrui, impongono la fotografia, il bianco e nero tra campiture geometriche, carte veline, in un tono generalmente e volutamente povero, vetrate sempre più dimesse, a misura di una condizione umana che Lancini doveva considerare sempre più precaria.
Al di là delle esperienze europee, di quell’arte del ventesimo secolo più in particolare europeo sulle cui mosse l’artista bresciano si era con tanto entusiasmo incamminato, certo gli apparivano più congeniali agli anni sessanta le esperienze artistiche di oltre Atlantico.
Non aveva mai smesso di lavorare, di aggiornarsi, di riflettere sul linguaggio sempre nuovo che l’arte del nostro tempo doveva reinventare ogni giorno. Non c’era conclusione, anche se fu la morte improvvisa per incidente a soli quarantotto anni a troncare ogni possibilità di ulteriori esperienze.
La conclusione unica possibile la verifichiamo noi oggi nella coerenza di un artista che è cresciuto su di sé, senza compromissioni di sorta, nello sforzo di essere il più vicino possibile «alla sua civiltà»." |
Luciano Spiazzi - Catalogo Galleria A.A.B. - 30 settembre 1972
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"Ermete Lancini, che era artista schivo ma attentissimo alle novità su scala europea, rappresenta uno degli esempi più significativi della provincia artistica italiana, la provincia bresciana nella quale chi stava dentro accusava tutti i limiti d’una tradizione sdolcinata e senza prospettive.
Lancini ci stava dentro alla sua maniera, ma si ribellava, si agitava girando per mostre e biennali, commentava, e poi si rifugiava nel suo mondo espressivo come in un’oasi dell’anima, non solo estetica ma soprattutto psicologica, con un impegno di ricerca che si può dire affine all’acuto senso critico, nella cui misura stilistica si intrecciavano le ragioni vere dell’arte, al di fuori da problematiche cervellotiche e per una pittura tonale, intelligente, solidamente ancorata a una visione audace ma naturalistica della realtà.
Con questa mostra si vuole dunque esaltare la sua personalità, la sua virtuosa missione di artista, l’eleganza e il gusto, la maliziosa struttura dei suoi ritratti e la voluttà straordinaria del suo espressionismo, in libertà grafica e cromatica.
Non l’abbiamo conosciuto di persona, ma lo scopriamo nelle quattordici agende che raccolgono i suoi fogli di diario che la Magalini Editrice pubblicherà prossimamente, tra un foglio e l’altro fino al giorno fatale dell’incidente che lo stroncò a quarantotto anni. E in questi suoi scritti si rivela la sua indole analitica, scrupolosa, puntigliosa, in memorie illuminate dalla fede e dall’emozione che spiegano la necessità del suo dipingere e rendono grande il suo spirito.
Facciamo qualche stralcio, fugacemente, per quanto ce lo consenta lo spazio. «Non è vero - scriveva Lancini - che ogni due mesi c’è un’arte nuova. C’è una moda nuova. Bisogna credere, essere convinti e non guardare gli altri anche se si deve vivere nel mondo della pittura contemporanea. Bisogna fare delle cose e non delle stupidate come quelle viste alla Biennale, cose inutili, ricametti, sfumatine, … non parliamo poi degli oggettini incollati, penosi, squallidi, insignificanti, perché di riflesso, perché non sentiti, un sacco di balle…».
E ancora «Dopo i pacchi di Christo se la cosa da appendere è finita, è finita la pittura e l’arte, ed il 2000 sarà degli artigiani delle arti applicate, decorative, le cosiddette arti minori, l’arte per la casa… Siamo ai flippers, ai bigliardini con le luci colorate ed il trillo dei campanellini, siamo ai giochetti, siamo in una parola alla società dei cretini e minorati di cervello».
Nelle ultime pagine troviamo uno svolazzo triste ma familiare. «E’ morta ieri la zia Irene… E’ un venerdì diciassette, fatti i dovuti scongiuri la Valeria (la mostra è dedicata alla piccola figlia dell’artista) dice: «Bela chesta!», dice battendo le mani con aria sconsolata per cose futili, santo cielo benedetto o porco canella e la Aldina è un po’ dimagrita ma sta benino. Le nostre cose. Mi sembra di vederci noi tre, una barchetta che esce da Mergellina, a remi, che punta verso il largo, verso Capri, piuttosto lontano, le prime onde, anche piccole, la punta della barca che balla, su e giù, la barca è ora ferma, noi che ci guardiamo attorno, tutti e tre… tutto in ridere, malinconie, dopo trota…».
Ci sembra di aver compreso che cosa intendeva Ermete Lancini per esistenza pulita e onestà intellettuale, virtù che dovrebbero essere essenziale presupposto d’ogni attività del cuore e della mente, ma anche condizione per bene operare. Di conseguenza, ritornando al suo concetto sull’arte, ci dice che non esiste un modello innovatore fuori dei termini artistici, ma un modello artigianale, spesso sciocco e scimmiottesco, né in noi, né attorno a noi. Perciò egli s’interessava alle stravaganze del nostro tempo, ma rientrava, amareggiato nella atmosfera pura del suo mondo. L’essere umano, l’essere artista, non è in grado di uscire da se stesso per far teatro, con un atto arbitrario da buffone, che non è un atto di conoscenza umana e trascendente. Tutt’altro, l’artista è incapace di vedere e di ritrarre qualcosa che non faccia parte della sua vera natura. La speranza di un mondo diverso, di un’arte diversa, ma arte, anima tutti i pensieri di Ermete Lancini. Le opere lasciate alla sua cara Valeria sono ora una testimonianza che trascende ogni speranza. Ermete Lancini è con noi, e ci fa dire con Gregorio di Nissa: «Ciò che non si è ancora trovato è sempre più bello di quanto si è già compreso»." |
Elio Marcianò - Catalogo Galleria d’arte Abba - 24 aprile 1976
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"La riproposta di Ermete Lancini (1920 - 1968) appare come l’evento più significativo all’inizio della nuova stagione espositiva; il pittore bresciano non ha mai tenuto un’esposizione «personale» in vita; l’antologica postuma, curata dall’attento Spiazzi, un quarto di secolo fa, è l’unico riferimento precedente, dotato di una sua compiutezza: ottimamente ha dunque fatto l’Associazione Artisti ad organizzare una esauriente rilettura. Alla rilettura del percorso antologico, con un ricco e documentato catalogo (a cura di R. Ferrari), che si tiene all’Aab, si aggiungono un percorso sui temi del sacro, nei chiostri di S. Giovanni, e un’antologica di opere selezionate, nello Spazio d’arte Novaglio, a Bovezzo.
Artista apparso sulla scena in età giovanissima, attorno ai vent’anni, scena che ha tenuto fino alla morte prematura, sperimentatore per eccellenza, attraversa una stagione di grandi rinnovamenti e di facili utopie; per questo, rischia di apparire un eclettico, se non si fissano alcune coordinate forti; coordinate non facili, certamente, per un pittore che […] ha inteso l’arte come un’esperienza culturale, più che un’attività produttiva, in senso economico (e si ricordava l’assenza di personali in vita); ha avidamente letto […] quanto accadeva in una stagione di rapide evoluzioni, traendo dalle esperienze artistiche esterne stimoli costanti e suggestioni, che trasferiva nel suo lavoro.
In questo suo carattere di «costante ricerca», occorre rintracciare la linea guida, per non disperdersi nel vasto itinerario di una produzione, che a prima vista può sembrare poco omogenea (ma è necessario essere omogenei in arte?).
Lancini ha annotato in numerosi «diari» le sue impressioni; una buona parte viene al lettore attraverso il catalogo; quasi alla fine della sua breve vita, tutta spesa nello sforzo verso la pittura da un lato, nell’insegnamento, come attività «per sopravvivere», dall’altro, e nell’affetto per amici e persone che hanno attraversato la sua vicenda biografica, c’è una annotazione, scritta il 24 ottobre 1966: nella storia della pittura Lancini individua un percorso di ricerca, «quello 1910 Picasso - 1930 Schwitters - 1960 Rauschenberg»; percorso che rimarca una sua antica presa di posizione: «la pittura è una cosa - un oggetto - non un atteggiamento, una interpretazione» (15 aprile 1953).
[…] Lancini attraversa un lungo periodo, che parte con la crisi del regime, alla fine degli anni Trenta, quando appena ventenne il pittore si intromette con «i più grandi» di lui nel mondo della pittura; supera senza gravi conseguenze la guerra; entra successivamente nel dopoguerra, con le speranze in crescita, che danno al nostro paese un entusiasmo e una gioia di prospettive, che i tempi non manterranno. Lancini appare inizialmente inseribile in un contesto più vasto, di legami poetici con le esperienze dell’espressionismo; e sono legami costanti, sotterranei, che durano nel tempo; a fianco dell’esperienza espressionista, fauve diremmo, che appare condivisa da altri autori della sua stagione, l’artista appare, singolarmente isolato, nella sua voglia di saggiare e intraprendere, nella sua ricerca, per farsi interprete sotterraneo della sua epoca.
[…] l’opera di Lancini sembra entrare di diritto in quella strada che ha voluto privilegiare la fine dell’arte accademica, e il risveglio della «cosalità» dell’opera: le ragioni fauves ed espressioniste, che stanno alla base delle sue opere giovanili (negli anni Quaranta) si coniugano inizialmente con le tensioni espressioniste […]: tale linea pare sotterraneamente sostenere una parte notevole della sua produzione. L’altro percorso, più personale e isolato, a partire dagli «arrangiamenti» di opere altrui, alla fine del decennio Cinquanta, fino ai collages degli anni Sessanta, assai vicini ai linguaggi assoluti dei nuovi realismi europei, appaiono come un processo operativo unitario, che rincorre un’idea di opera nuova, per dar corpo a quell’idea di arte di cui si è detto. In questa luce, anche le pagine più pittoriche degli anni Cinquanta, quelle più note ed esposte nelle pochissime collettive in cui è comparso, acquistano un senso nuovo, di mediazione tra una pittura in cui si crede, ancora «tradizionale» - come può esserla per uno sperimentatore -, e una direzione di superamento dell’arte verso quei valori nuovi, eterni, non legati ad un qui ed ora stilisticamente determinato.
[…] C’è in questo artista una tensione stilistica che si risolve alla fine nell’assunzione di un linguaggio narrativo, a largo spettro massmediale (utilizzazione di frammenti a stampa, e cosi via); ma sarebbe improprio ritenere che una considerevole parte della sua produzione, che investe l’ultimo decennio della sua vita, sia riconducibile ad una ricerca allo stato puro, fine a se stessa.
La riproposta di Lancini porta in campo un artista da riconsiderare, da approfondire, alla luce di un quadro che, esposto compiutamente per la prima volta, e ulteriormente indagato, può aiutarci a comprendere ciò che è stato il recente passato nella nostra provincia." |
Mauro Corradini - Bresciaoggi - 10 ottobre 1997
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"A fine ’93, una rassegna in palazzo Martinengo esplorò la via della modernità nell’arte a Brescia del secondo dopoguerra, che vide anche qui, più che lo scontro tra astrattisti e realisti sociali, l’incomprensione tra coloro che volevano immettere i linguaggi europei […] e coloro che credevano fosse ancora possibile alimentare una pittura di genere fruttificante sui rami lunghi della stagione naturalista tardo ottocentesca: il gusto della buona pittura sia di mestiere che di colore locale.
Contro la misura trovata in casa si schierarono tra gli altri Vittorio Botticini ed Ermete Lancini, entrambi ovviamente proposti in quella rassegna al Martinengo. Ora, in contemporanea, è possibile avere un ben più ampio riscontro dell’attività di questi due protagonisti di un’importante stagione della pittura bresciana.
[…] vasta è la documentazione di Ermete Lancini, addirittura in tre sedi espositive: l’Aab e il chiostro di San Giovanni (opere di soggetto religioso, in particolare la Via Crucis) in città, la galleria Novaglio a Bovezzo.
[…] Lancini (1920-1968), a parte poche opere in collettiva, aleggiava più come mito che come reale presenza documentata.
[…] La generazione uscita dalla guerra s’era trovata a fare i conti con la crisi di un’intera civiltà figurativa: l’arte doveva essere agguerrita contro le forze dell’anticultura che avevan portato alla catastrofe, il postcubismo era una patente di comunanza europea e di identità tra espressione e coscienza morale. Botticini e Lancini furono tra i pochi pittori a Brescia a frequentare il collezionista Cavellini che qui tentò di coagulare i pittori astratto-concreti del Gruppo degli Otto (un’arte di equivalenti lirici della realtà) e di collezionare i gesti della pittura del postcubismo lirico, dell’informale, dell’espressionismo astratto.
[…] Gli estratti dai diari di Lancini cuciti nel saggio di Ferrari consentono di coglierne il lucido tormento intellettuale, la scelta di fare sempre pittura come messa in atto del problema dell’immagine e del colore. In Lancini domina una coloritura giallastra, acidula, livida e aspra, o immalinconita e smorzata.
[…] Lancini - partendo da un clima di neoprimitivismo o naturalismo aspro e umoroso -, fu più prossimo a fare dello spazio un luogo strutturato di materia che si trasforma in memoria.
Un impasto inseparabile dalla presenza delle cose, che sarebbe arrivato - attraverso figure di fluida monumentalità, se si può dire -, a tessere astrazione e natura (Picasso e i populisti messicani riletti attraverso Migneco, Cassinari e sodali), e poi - attraverso reticoli di segni eccitati e grafie libere che progressivamente si risolvevano in pittura - al collage come sintesi della contemporaneità, cercando di raccogliere brandelli e tracce dell’esistenza quotidiana nel quadro pittura del tempo.
Le opere migliori di Lancini sono le figure sospese in esaltata innocenza, ma già in un’attonita spossatezza, come presaghe d’un’esperienza amara e disillusa della vita, proprio come certi «pugili suonati», a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta. Anche nella pittura religiosa coeva offre esempi di umanità trasognata, un ingombro di figure antieroiche rette su uno strato emotivo e simbolico, molto vicine a certi personaggi alla Carpi ed ai pittori usciti da Corrente.
[…] tra drammatico immettersi nella mischia e ruvido isolamento, anche per il prevalere infine nei canali espositivi della città del gusto più conservatore o d’una figurazione più narrativa […] Lancini volle con caparbia generosità farsi quasi didascalico, nel propugnare le sue idee, anche a costo, talora, di snaturare la propria vena poetica […]" |
Fausto Lorenzi - Giornale di Brescia - 11 ottobre 1997
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