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Kevin Bubriski
Portrait of Nepal
dal 13/12/08 fino al 25/2/09
presso
Museo Ken Damy di fotografia contemporanea
Comunicato stampa
Verso la metà degli anni Settanta ho viaggiato da solo nelle montagne del Nepal, con lo zaino in spalla, confidando nell’ospitalità dei pastori e degli abitanti dei villaggi himalayani per il vitto e l’alloggio.
Parlavo nepalese e ho scoperto che mi bastava molto poco per vivere felice: un buon piatto caldo vicino a un bel fuoco e abbastanza spazio per stendere il mio sacco a pelo sotto il riparo roccioso dei pastori.
Verso la fine degli anni Settanta avevo già vissuto e lavorato per ben quattro anni in remoti villaggi nepalesi, recandomi di rado nella capitale del regno, Katmandu.
Le cose più banali della vita moderna – automobili, elettricità, acqua corrente – erano diventate pallidi ricordi di altri tempi. I rituali della vita di montagna costituivano la mia realtà quotidiana e gli amici e i conoscenti del villaggio erano le persone a me più care.
Non ero pronto per il dolore della separazione che ho avvertito quando sono ritornato negli Stati Uniti.
Avendo mantenuto pochi contatti con i villaggi di montagna che ormai consideravo come la mia casa, i vividi ricordi degli anni trascorsi in Nepal si sono stemperati mano a mano che cercavo di reinserirmi nella vita moderna.
Le fotografie che avevo scattato erano il mio unico, solido legame: proprio come le foto di famiglia che si tengono nel portafoglio, mi ricordavano le persone che mi erano care quando ero lontano.
Nel 1984 sono ritornato in Nepal, con fotocamera, treppiede, contenitori per le pellicole, un assistente e due portatori, ho viaggiato in lungo e in largo per il paese per quasi tre anni, scattando immagini per questa mostra e per il mio libro.
L’equipaggiamento ingombrante che mi portavo appresso ha reso impossibile il ripetersi della mia precedente esperienza in solitario; questa volta viaggiavamo muniti di tenda, cibo e fornello, per cui potevamo vivere tra le montagne senza dover dipendere dalle scarse riserve alimentari degli abitanti dei villaggi.
L’uso della fotocamera mi poneva al centro della vita del villaggio; bufali, capre e bambini curiosi mi passavano accanto, di tanto in tanto inciampando nel treppiede.
A volte mi arrabbiavo per il distacco che provavo per il fatto di trovarmi sotto il telo nero, concentrato sulla scena che si rifletteva al contrario sulla lente da quattro per cinque pollici, invece di vivere fino in fondo le grida degli animali, le gelate brezze della montagna e le conversazioni che si svolgevano intorno a me.
Ero anche consapevole dei limiti che derivavano dal considerare sempre la gente che mi ospitava, i sentieri del loro villaggio e i panorami di montagna come mere immagini per la mia fotocamera.
Ma questo secondo viaggio ha portato i suoi frutti.
Il ritmo lento e rituale della vita delle montagne era perfettamente in linea con le procedure metodiche richieste dall’uso di una fotocamera di grande formato. In molti casi, la macchina registrava persone che si erano preparate meticolosamente e che presentavano l’immagine di loro stessi che volevano mostrare agli altri.
In altri casi, coglieva di sorpresa soggetti che erano poco consapevoli o poco a conoscenza del processo fotografico.
Ho ristabilito vecchie amicizie e rivissuto antiche esperienze mano a mano che mi trovavo davanti all’obiettivo amici del villaggio del mio precedente viaggio.
Per gli altri la macchina fotografica è stata un mezzo per fare conoscenza, il primo incontro tra abitante del villaggio e visitatore, dove le fotografie diventano il risultato della reciproca consapevolezza.
Usando l’obiettivo per mettere a fuoco i vari volti – alcuni noti, altri nuovi, alcuni soli, altri insieme a parenti o amici – sentivo che ero testimone di un’entusiasmante rivelazione visiva.
Una volta ritornato negli Stati Uniti, dopo aver visto i risultati sviluppati e stampati, mi sono reso conto che avevo colto l’essenza privata, unica e misteriosa di ognuno di quei soggetti per portarla in un mondo ignoto, lontano dai villaggi di montagna.
La consapevolezza che non solo la macchina fotografica, ma anche il mondo moderno stava facendo incursioni sempre più frequenti persino nelle zone più remote del Nepal mi ha spinto a documentare un’epoca e uno stile di vita che sta inesorabilmente scivolando
nel passato.
Kevin Bubriski 1993
la mostra rimarrà aperta fino al 25 febbraio 2009
se servissero delle immagini in alta definizione saremo ben lieti di fornirvele
per informazioni: tel 0303758370 dal martedì al sabato dalle 15.30 alle 19.30
e-mail info@museokendamy.com
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