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Opus incertum
Alessandro Spadari - Gabriele Talarico - Alberto Zamboni
dal 24/1/09 fino al 28/3/09
presso
Galleria delle Battaglie
a cura di Valerio Dehò
Comunicato stampa
Molte incertezze, molte visioni. Gli artisti non è detto che debbano mettere a fuoco il mondo per rappresentarlo o interpretarlo, magari certe volte è più facile che spengano i contatti con il nervo ottico e si affidino alla mente, alla memoria, a quello che ci fa sapere senza vedere. Gli artisti presentati in mostra hanno molta dimestichezza con l‘opera incerta perché ognuno a suo modo nutre una serie di riserve su quello che è reale e quello che non lo è. Ognuno di questi giovani ha qualcosa da dire sulla luce e sulla sua impossibilità reale a farci vedere il mondo. E’ meglio quindi l’ora incerta in cui le ombre si allungano, in cui la vita rallenta o scompare dentro i vicoli e dentro le mille fessure delle città. Una quiete apparente si diffonde e assorbe tutto attorno a sé...
Alberto Zamboni predilige una visione crepuscolare delle cose, cioè una visione che permette di vedere con gli occhi socchiusi, come se una nebbia velasse le nostre sempre stanche pupille. Zamboni non rivela ma vela. Non conta infatti quello che si vede, ma come lo si vede. La sua è una visione emeralopica, crepuscolare. La luce di mezza sera è fioca, ma sufficiente per pensare. La tela diventa la superficie in cui incespicano i sogni, ma anche il rifugio delle immagini perdute, delle visioni interiori che i nostri occhi non riescono più a trattenere e vengono proiettate al di fuori di noi, contro lo schermo del mondo.
Alessandro Spadari predilige una certa inclinazione romantica, cioè un modo di leggere la realtà in modo trasognato eppure ad occhi aperti, attraverso i sentimenti. Spadari sente particolarmente l’opera di Friedrich L’artista si muove in uno spazio liquido, dipinge con una tendenza al monocromo perché la visionarietà non ha bisogno di tanti colori. Negli ultimi anni ha lavorato spesso sul tema del paesaggio molto atmosferico, un paesaggio senza punti di riferimento in cui la neve, le stelle o il mare sono tracce perdute di un linguaggio scomparso. Quello che emerge dai suoi quadri è una sottile vertigine, un brivido perché la tela non annuncia che una possibilità, un timore, un’incertezza esistenziale, uno stato di sottile malessere. L’arte è timore, paura di fronte alla natura, all’infinito.
Con Gabriele Talarico le atmosfere ritornano ad essere più normali, ma fino ad un certo punto. Riconosciamo quello che vediamo perché sono delle istantanee di grandi città che magari abbiamo visitato o che abbiamo visto in fotografia. Questa rassicurazione però è in parte attenuata dal fatto che Talarico dipinge il negativo delle cose che vede, come una pellicola stampata senza l’inversione cromatica. Così si innesca un meccanismo di visionarietà in cui non ci resta che la notte. Ma questa è artificiale, è un effetto di luci e ombre, ogni dato naturalistico è perduto, cancellato dalla memoria.
Talarico vuole arrivare al termine della notte, guardando il mondo al contrario, con la memoria di un paese perduto nella testa e la ricerca di un’attualità che ci allontanano dal “supplizio della speranza”.
Disponibile in galleria il catalogo con testo critico di Valerio Dehò.
Opus incertum
Molte incertezze, molte visioni. Gli artisti non è detto che debbano mettere a fuoco il mondo per rappresentarlo o interpretarlo, magari certe volte è più facile che spengano i contatti con il nervo ottico e si affidino alla mente, alla memoria, a quello che ci fa sapere senza vedere. E gli artisti qui presentati hanno molta dimestichezza con l‘ opera incerta perché ognuno a suo modo, e per fortuna, nutre una serie di riserve su quello che è reale e quello che non lo è. Non sono versati in sociologia o antropologia così a la page a livello di art system internazionale, fanno soltanto il mestiere di dipingere, con buona pace delle Biennali che mostrano sempre gli stessi artisti come se si trattasse solo di un circo mediatico. Diciamo anche che ognuno di questi giovani ha una sua capacità di proporre allo spettatore una chiave di lettura del mondo, non sanno fare solo dei bei quadri da mettersi in casa per provare quel piacere estetico che sembra scomparso per sempre.
Prendiamo per esempio Alberto Zamboni, che predilige una visione crepuscolare delle cose, cioè una visione che permette di vedere con gli occhi socchiusi, come se una nebbia velasse le nostre sempre stanche pupille. Zamboni non rivela, ma vela, proprio nel senso che cosparge di cenere, leggera impalpabile ciò che lo circonda e che è potenzialmente una sua opera. Poi passa a dipingere ciò che sa, o forse che ricorda.
Cose semplici, come case, piccioni, strade, ma anche eventi fenomenali come uno Zeppelin e altre fantasticherie del genere. Gli artisti sono fantasiosi, per natura e definizione. Pittori del genere ce ne sono stati e ce ne saranno e in genere li si usa definire visionari, un pò alla Briganti un pò anche alla Sgarbi, quando cerca d’inventarsi una categoria “padana” di gente che guarda per diletto e non per necessità quello che non c’è. In ogni caso Alberto Zamboni sa bene che la pittura non è stata inventata per dipingere scatole di detersivi o pizze al taglio. E’ un potente strumento per creare un diaframma con la realtà, un diaframma sottile che magari lascia trasparire qualcosa, ma è soprattutto una forma di protezione psicologica. Non conta quindi quello che si vede, ma come lo si vede. Le opere non consistono in questo o quest’altro, sono solo motivi per dipingere, non certo dei soggetti da andare a ricercare con Google immagini. Non serve a niente. La sua è una visione emeralopica, crepuscolare. Questo significa che la luce accecante del mezzogiorno sta da un'altra parte e con essa la pazzia del demone meridiano, come ci ha descritto Roger Caillois. La luce di mezza sera è fioca, ma sufficiente per pensare. La tela diventa la superficie in cui incespicano i sogni, ma anche il rifugio delle immagini perdute, delle visione interiori che i nostri occhi non riescono più a trattenere e vengono proiettate al di fuori di noi, contro lo schermo del mondo.
Alessandro Spadari predilige una certa inclinazione romantica, cioè un modo di leggere la realtà in modo trasognato eppure ad occhi aperti, attraverso i sentimenti. E questi appartengono alla reverie, al fantasticare al limite del baratro notturno, ma rimanendo sempre un pò al di qua, non facendosi portare mai completamente oltre. Non si fa trascinare dal Maelstrom della notte, si sentono i vortici dell’oceano ma non si vedono i poveri sciagurati in procinto di essere trascinati negli abissi. Spadari sente particolarmente l’opera di Caspar David Friedrich con quei personaggi che sostano davanti alle rovine gotiche o davanti all’infinito del mare o al silenzio delle montagne. Così è, se le Muse vi soffiano sugli occhi, riuscite anche a vedere cose che normalmente sono immateriali, appunto come l’eternità, il sublime, la finitudine, il tempo. Spadari si muove in uno spazio liquido, dipinge con una tendenza al monocromo perché la visionarietà non ha bisogno di tanti colori, quelli sono arrivati dopo con la psichedelia o le droghe. La pittura visionaria (Fuessli, Moreau, Redon) non ha mai avuto bisogno di accendere le luci, si è sempre accontentata della penombra e di giorno il sole non riesce a perforare gli stati di nuvole, le nebbie di Avalon possono sollevarsi come una cortina teatrale.
L’artista negli ultimi anni ha lavorato spesso sul tema del paesaggio molto atmosferico, un paesaggio senza punti di riferimento in cui la neve, le stelle o il mare sono tracce perdute di un linguaggio scomparso. Quando poi decide di dipingere un “oggetto” vi pone poca attenzione, non ne cerca i contorni, i dettagli. Però li colloca sempre al centro dei quadri, sono punti d’ equilibrio provvisori, qualcosa che deve ancora definirsi. Sono navi, per esempio, in mezzo ad un mare procelloso o al silenzio della bonaccia. Quello che viene fuori dai suoi quadri è una sottile vertigine, un brivido perché la tela non annuncia che una possibilità, un timore, un’incertezza esistenziale, uno stato di sottile malessere. Posso scomodare il sublime kantiano con poca fatica: l’arte è timore, paura di fronte alla natura, all’infinito. Siamo piccoli e non cresceremo mai abbastanza da occupare l’intero quadro. Siamo noi dentro i quadri di Alessandro Spadari, siamo noi e non sappiamo come uscirne. E nemmeno l’artista lo sa perché lui non deve fornire soluzioni, deve accarezzare il bello nascondendo l’abisso, che c’è ed è pronto a prendersi i nostri occhi.
Con Gabriele Talarico le atmosfere ritornano ad essere più normali, ma fino ad un certo punto. Riconosciamo quello che vediamo perché sono delle istantanee di grandi città che magari abbiamo visitato o che abbiamo visto in fotografia o al cinema. Questa rassicurazione però è in parte attenuata dal fatto che le immagini le vediamo dipinte come se fossero in negativo. Praticamente è come se Talarico dipingesse il negativo delle cose che vede, come una pellicola stampata senza l’ inversione cromatica, direttamente a contatto. Allora lo stato di alterazione è ben presente non solo e non tanto per la negatività che viene proposta, ma soprattutto perché si innesca un meccanismo di visionarietà in cui il daylight va a ramengo e non ci resta che la notte. Ma questa è artificiale, è un effetto di luci e ombre, ogni dato naturalistico è perduto, cancellato dalla memoria.
In questo “opus incertum” ritornano parole che abbiamo già speso, ma non fino in fondo. La notte è il rovescio del giorno. La notte è fatta per tutto tranne che per vivere, chi lo fa accelera i suoi battiti vivendo in rapida successione le sue età, accelerando la ferita finale. Ma la notte è anche per la filosofia romantica, e per un poeta come Novalis, il luogo in cui gli spiriti s’incontrano, una sorta di convegno permanente sulla vita e la morte.
Anche Talarico corteggia la bellezza, come gli altri artisti, sa bene che il male può essere solo nascosto dall’abbagliante verità della forma. Ma ha scoperto che l’esattezza delle forme, la definizione della pittura può anche essere abbandonata a favore di un segno più libero, forte, espressionista: un segno che acquisisce la gestualità di chi scava dentro le immagini cercandone l’arché, l’origine. Non a caso il buio richiama la luce, è un altro aspetto di questa, un’altra finzione. Gabriele Talarico vuole arrivare al termine della notte, guardando il mondo al contrario, con la memoria di un paese perduto nella testa e la ricerca di un’attualità che ci allontanano dal “supplizio della speranza”.
Tutti gli artisti di questa mostra hanno qualcosa da dire sulla luce e sulla sua impossibilità reale a farci vedere il mondo. E’ meglio quindi l’ora incerta in cui le ombre si allungano, in cui la vita rallenta o scompare dentro i vicoli e dentro le mille fessure delle città. Una quiete apparente si diffonde e assorbe tutto attorno a sé. La Natura oppure la vita artificiale delle città non possono nulla nei confronti di questo silenzio, a cui si arrendono perfino le mie parole.
Valerio Dehò
Opus incertum inaugurerà sabato 31 gennaio h 18.30 e terminerà il 28 marzo 2009.
La mostra rimarrà aperta nei seguenti orari:
lunedì: mattina chiuso / 16-19.30
martedì - sabato: 10.15-12.45 / 16-19.30
e su appuntamento
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