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Relicta
Giorgia Beltrami - Pastorello - Luca Piovaccari
dal 22/11/08 fino al 24/1/09
presso
Galleria delle Battaglie
a cura di Valerio Dehò
“In quei momenti realizzi che a parte il mondo accessibile a tutti, quello reale, che può essere esplorato e analizzato, ne esiste un secondo, fluido, unico, visionario, irrazionale, solo apparentemente congruente con il primo, che non è puramente un’ invenzione del nostro cuore e della nostra mente, come crede la gente, ma un mondo in cui ogni bit è altrettanto reale e concreto come in quello generalmente conosciuto.”
( Andreas Gursky)
La luce si appanna, i sensi si oscurano, l’ orologio scandisce un beep sempre più flebile. La nostra percezione dell’universo da un lato è fatta di una consapevolezza superiore ai tempi andati, dall’altra non conduce a nessuna conoscenza. Si sa senza conoscere. Relitti e frammenti di mondi e galassie perdute ci attorniano come se fossero una cascata di ricordi, mentre invece appartengono all’oggi, a quello che scorre attorno al nostro corpo e alla nostra mente. Nello stesso tempo tra il mondo dell’arte e quello della vita la distanza si è annullata come tra lo spazio e il tempo. Digitale o no, qualcosa è cambiata, qualcosa non è più la stessa. La stessa natura ha cambiato le caratteristiche che conoscevamo, e gli artisti molte volte hanno bisogno di isolare questi relitti, di salvarli per quello che è possibile, per affidarli un’altra volta al tempo. As time goes by. Però non c’entra niente il tempo che passa, tutto sembra fermato, anzi rappreso, coagulato. E se ci può essere una memoria senza commiserazione, senza rimpianti, è proprio questa. In questa mostra ci sono artisti che vogliono preservare qualcosa che gli appartiene e qualcosa che ci appartiene per inserirla in una capsula del tempo che possiamo chiamare arte. Niente può tornare, ma forse può apparire ancora una volta, come un volto su di uno specchio appannato di vapore, come un’ impronta nell’argilla. Gli artisti conservano, gli artisti sono conservatori. Queste sono cose semplici e facili che bisogna ricordare. Il tempo delle avanguardie è terminato da un pezzo e la funzione di chi fa arte non è certo più quella di rivoluzionare il mondo sempre più simile alla natura incantata delle favole. Tutto è fermo proprio perché il movimento del tempo non è più necessario all’arte. Ci basta quello che si riesce ancor a trovare nelle fessure del tempo, nelle immagini di una televisione che non funziona, per strada dietro un cespuglio malnutrito. I relitti sono icone di qualcosa che è ancora possibile salvare, per quanto o non è dato di sapere, ma sono anche tracce di qualcosa o qualcuna che si è intersecato con le linee della vita. I relitti sono il cibo della mente.
Pastorello naviga per percorsi alieni in cui ricompare perfino una figura leggendaria come quella di Elvis, detto the Pelvis per il suo noto e provocatorio ancheggiare. L’artista recupera anche una certa velocità d’esecuzione perché la carta lo richiede e lo consente. Allora i suoi intrecci o grovigli che ipostatizzano la linea curva e spezzata, abbandonando ogni linearità, s’intrecciano, è il caso di dirlo, con una tecnica che evidenzia la calligrafia, quasi una veloce scrittura. Mentre i volumi restano intatti, rispetto alle tele, grazie alla tecnica di mettere due toni sullo stesso pennello, si avverte una fluidità diversa, una sorta di abbraccio vegetale in cui l’organicità si fa presenza forte, anche se non esclusiva. Elvis è a tutti gli effetti una figura di movimento, ma in questo caso è un bambino, che chiude gli occhi, gioca o sogna a creare un mondo parallelo con il braccio che sta per organo sessuale dell’artista duro ed eretto pronto a spargere seme attorno a se. Metafora, o meglio allegoria, dell’artista Elvis è un simbolo di fertilità. La mano ed il braccio eretto come un fallo sorge in un mondo in attesa di forma e colore e quindi insieme danno la vita alla materia inerte, al vuoto: sottraggono la bianca tela o la carta al destino dell’anonimato.
Pastorello lavora da sempre sui frammenti, su ciò che resta del giorno e ciò che resta dell’arte. I suoi personaggi hanno sguardi fissi e sono attoniti, sospesi come sono tra i cartoons e il Novecento. I suoi alberi non hanno foglie perché appartengono già al futuro. Sa che il mondo non esiste se non davanti alle idee di un artista. Non ha senso darsi troppi pensieri a riflettersi nel mondo, è più importante piuttosto vivere uno spazio proprio, personale unico anche se non irripetibile. Non vi è un altro tempo, non vi è un altro spazio che quello che l’arte fa vivere per piccole porzioni, per porzioni di un cielo che diventa una torta che diventa un cielo.
Giorgia Beltrami disegna stilizzazioni d’alberi, d’elementi vegetali, lavorando sulla sottrazione di elementi naturalistici. Quello che resta sono le silhouette che vengono poi montate con elementi analoghi ma in cui il colore aggiunge un forte senso di richiamo e di pericolo. Sul bianco e nero che mette in scena morte e spettralità, il rosso è un segnale che accende vita, ma che fa allertare l’attenzione verso un qualcosa che è potuto accadere o potrebbe ancora accadere. Il gioco tra artificialità e naturalità così non ha modo di porsi perché è tutto trasposto in chiave fortemente simbolica. La presenza del colore polarizza la composizione che sa mettere in evidenza un senso di forte attesa e di tensione. Non sono semplici paesaggi, ma si tratta di rimandi metaforici ad un’alterità che ci è lontana e che pure ci appartiene profondamente. Alberi, rami, decantati in un processo indiziario che non rivela mai i particolari perché ormai sono stati dimenticati, nascosti alla vista e alla percezione. Immagini che sono relitti/reliquie di un mondo che scompare progressivamente, quasi senza rumore e che fin quando arriverà in fondo ai nostri occhi avrà sempre un’ultima luce a cui aggrapparsi. Dai titoli si comprende anche la visione naturalistica e la minaccia che ne consegue. Per questo gli “orizzonti” appaiono costretti a fare i conti con tracce dell’uomo, segni, impronte, che ripetono una logica visiva indiziaria che ci riconduce ad una scena in cui qualcosa si è compiuto o si compierà. Ma tutto questo avviene in un silenzio metafisico che è atemporale, sospeso come ogni giudizio.
Luca Piovaccari è un’artista che ha spesso privilegiato la fotografia, anche se la usa in modo quasi installativo. Ma non è uno che si sposta molto, scatta immagini della realtà che ha attorno, che conosce, che sente scorrere dentro di sé. Forse non si è mai mosso dalla sua Romagna, perché tanto ci sono cose interessanti anche lì. E’ un minimalista lirico, tanto per definirlo in modo sintetico, che si affida molto alla poeticità delle immagini che riproduce e allestisce spesso in situazioni semi naturalistiche. Cerca qualcosa che non si vede, che non tutti vedono. Stampa le sue foto su fogli trasparenti creando sovrapposizioni, frammentazioni per creare distanza, per nascondere qualcosa che ha nella trasparenza la sua invisibilità. L’immagine scomposta, sembra ricomporsi, ma è come se la sua sottile ferita non possa mai richiudersi in una unità impossibile, perduta.
Il paradosso di Piovaccari sta nell’ indifferenza poetica che lui propone, nella sua assenza dalla scena, qualsiasi scena: proprio mentre compone mette insieme, modifica quel reale che gli appartiene perché ci vive dentro. Le sue opere forse hanno una certa malinconia che si deposita sullo spettatore come qualcosa di dolcissimo, ma anche di necessario per comprendere quello che si ha davanti. Guardare è contemplare, mettere insieme dei frammenti di un mondo che non combaciano mai esattamente insieme. Il suo sguardo lucidissimo è quello di un poeta della realtà che sa inventare quello che è giusto per rimanere dentro la realtà ma senza farsene assorbire. La complessità dell’artista sta proprio in questo mondo semplice, eterno, metafisico che sa abitare e far abitare ai suoi soggetti.
Valerio Dehò
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