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(S)paesaggi
Pier Cattaneo, Roberta di Girolamo, Alessio Ottelli, Luciano Pea, Alessandro Spadari, Alberto Zamboni
dal 12/6/09 fino al 26/9/09
presso
Galleria delle Battaglie
a cura di Mauro Corradini
Oggi, in forme diverse e tuttavia concordi, molti autori si dedicano al paesaggio, senza avere il coraggio né di toglierlo dal loro mondo poetico, né di renderlo del tutto artificiale, come è pur accaduto in alcuni casi della miglior pop art italiana (e pensiamo ai “paesaggi anemici” di Schifano), che traducono la realtà di un mondo poetico ormai im-possibile.
Si ostina Alessandro Spadari a sciogliere le forme per conservare la magia cromatica, le materie e le colature, quasi un volersi ricollegare all’ultima emozione di un paesaggio possibile; ed è ad un tempo paesaggio dell’occhio e dell’emozione, costruito con le corposità di una pittura che, nonostante tutto, non cessa di stupire.
Alessio Ottelli guarda a Zigaina, ai suoi campi friulani che scivolano verso il mare; ma proprio in questo monotono orizzonte di erbe appena incurvate dal vento, si muove qualcosa, un filo di fumo, un alito di vita che non viene più dalla natura, ma dal bisogno della pittura di fissare la verità delle cose che si percepiscono, a volte ai limiti dello sguardo.
Più scopertamente lontani da questi paesaggi, in forme diverse, sia Luciano Pea, che vola oltre un orizzonte terreno, per dire al lettore che “il paesaggio è altrove (o forse è solo nella pittura)”; sia Pier Cattaneo, che lo riduce e lo riconduce a pure figure ondeggianti, icone grafiche dai lievi profili.
Di felicità espressiva occorre parlare a proposito di Roberta di Girolamo che viaggia nelle atmosfere, residuali immagini possibili, di una pittura che si contrae in se stessa, perché solo così ritrova la sua potenzialità. Non dunque paesaggio ma pittura, che parla di se stessa.
Alberto Zamboni dipinge una città non distinguibile: un paesaggio urbano velato da un irreversibile crepuscolo che sembra tutto attutire e tutto ricondurre ad uno sguardo che si perde nell’inutile tentativo di cogliere una realtà, ormai fattasi impalpabile, fragile come la conoscenza, tenera e struggente come l’emozione, poetica come ogni cosa che possiamo comprendere e definire solo al di fuori della ragione.
Disponibile in galleria un flyer con testo critico di Mauro Corradini.
(S)paesaggi inaugurerà venerdì 12 giugno h 18.30 e terminerà il 26 settembre 2009.
La mostra rimarrà aperta nei seguenti orari:
da martedì a sabato: 10.30-12.30 / 16-19.30 e su appuntamento
Pausa estiva dal 27 luglio al 7 settembre 2009 compreso
Testo critico
Con la nascita delle tensioni espressive che condurranno alla contemporaneità fa la sua comparsa all’interno della cultura visiva europea il paesaggio. Dallo “sfondo” più o meno carico di natura per la scena-evento della tradizione, il paesaggio emerge come luogo dotato di sentimento ed emozioni, che rende, lentamente, ma inesorabilmente, quasi inutile la presenza dell’uomo; diviene “genere”. Il paesaggio si propone inizialmente in forme limitate, non più sfondo quindi, ma nemmeno compiutamente figura autonoma; vive inizialmente le contraddizioni della luce e delle presenze umane, che comunque giustificano l’opera. In forme quasi speculari, nei confronti di questo apparire, si manifestano rapidamente i segni di una progressiva scomparsa; il paesaggio comincia a sciogliersi, a perdere i suoi caratteri di luogo ad un tempo dell’animo e visione dell’occhio. Appena giunto ad un’autonomia espressiva, già sfugge alle logiche interne della pittura descrittivo-evocativa, sciogliendosi nei bagliori rossastri del Parlamento londinese che brucia (Turner), per cui rossa diventa l’acqua fangosa del Tamigi, e successivamente stemperandosi nei “covoni” che illanguidiscono nell’abbagliante luce solare (Monet), premonizione inquietante per il grande russo (Kandinskij), posto di fronte per la prima volta, sul finire del Diciannovesino secolo, ad un soggetto “assente” e nello stesso tempo ad un’opera che mostra la pienezza dell’immagine compiuta.
Tanto repentina la comparsa in forme autonome, quanto lenta e accentuata da mille inflessioni la sua assunzione nel territorio culturale dell’artista; la nuova autonomia linguistica contribuisce a disperdere il paesaggio fino a farlo congiungere con quell’universo che abbraccia cielo e terra in una rinnovata cosmogonia che sconvolge i piani della “divina” montagna che il grande Cézanne legge alle porte della sua città; ancora pochi decenni e il paesaggio si frantuma ancora nei rivoli suggestivi degli addii boccioniani, che cancellano d’un colpo le preoccupazioni descrittive del soggetto; doveva emergere ancora l’assenza cercata del grande Morandi, nelle facciate vuote, con i grandi occhi aperti delle finestre, a disegnare una casa che si erge come un fantasma senza corpo sui pendii assolati degli Appennini che sovrastano la sua Grizzana. Ancora una volta, conquistata la realtà di un paesaggio interiore, vengono a disperdersi tutti i temi e i ritmi e le conquiste di tanta pittura che aveva attraversato l’Ottocento, sospinta dalla forza espressiva del grande realismo di Gustave Courbet, che ha voluto raffigurare la verità delle cose, contro ogni interpretazione romantica (contro l’ideale, scrive il grande della Franca Contea).
Il paesaggio nasce e muore quasi di colpo; autonoma e importante presenza, vive la giovinezza per spegnersi nell’appena conquistata maturità: e i nomi presi a campione bastano e avanzano per questa ipotesi di lettura, che trova una probabile conclusione nel paesaggio-bandiera di Malevic, con le sue strisce multicolori ad indicare un’ormai irrimediabilmente diversa percezione del mondo.
Di fatto il paesaggio muore non come portato stilistico; proprio mentre la pittura “inventa” con Segantini le montagne, e con altri cantori i laghi, crea un immaginario collettivo per tutti noi, la stessa cultura, non solo quella visiva, mina le certezze, rende fragile e precaria ogni presenza, fino a trasportarci verso un paesaggio che più non c’è, sia esso la cosmica visione di un volo verso Oriente che Margherita compie con il suo Maestro (Bulgakov), sia esso la più modesta, ma non meno vera, dimensione temporale, messa in crisi nella narrativa fantascientifica, ad iniziare da quella “macchina del tempo” che chiude l’Ottocento e apre nel contempo le porte del secolo Ventesimo. In pittura, questo “volo” può forse leggersi nel frantumarsi del paesaggio futurista, o nel disarticolarsi dello spazio nelle visioni aeree degli anni trenta.
Si può parlare di paesaggio oggi, dopo i nudi che si sfrangiano e i volti irrigiditi di Fautrier? Si può parlare di paesaggio oggi, dopo il grido di Wols (“l’unica, la sola arte possibile è la natura stessa”)? dopo le forme disfatte del paesaggismo lombardo, erede della tradizione scapigliata, rinato un secolo dopo nella medesima tensione tragica del secondo dopoguerra? (dall’Adda di Morlotti, al Po di Goliardo Padova, ai colli lombardi di Giunni). Il paesaggio è finito forse nell’ombra greve che il Van Gogh di Bacon traduce, quando l’inglese dipinge il solitario, grande olandese che se ne va con cavalletto sulle spalle alla ricerca di un impossibile “motivo”.
Oggi la pittura frequenta ancora il paesaggio; ma se quello urbano è finito nelle case distrutte del realismo magico tedesco, quello naturale è rimasto una memoria lontana; e in forme diverse e tuttavia concordi, molti autori si dedicano al paesaggio, senza avere il coraggio né di toglierlo dal loro mondo poetico, né di renderlo del tutto artificiale, come è pur accaduto in alcuni casi della miglior pop art italiana (e pensiamo ai “paesaggi anemici” di Schifano), che traducono la realtà di un mondo poetico ormai im-possibile.
Si ostina Alessandro Spadari a sciogliere le forme per conservare la magia cromatica, le materie e le colature, quasi un volersi ricollegare all’ultima emozione di un paesaggio possibile; ed è ad un tempo paesaggio dell’occhio e dell’emozione, costruito con le corposità di una pittura che, nonostante tutto, non cessa di stupire. Il paesaggio ancora, dunque, su una lezione che in terra lombarda non si è perduta, partita come era dalle richiamate matrici della “scapigliatura”, intessuta con i pigmenti e i grumi di una lunga stagione, da Tallone a Tosi; e il giovane Spadari si muove su quella stessa scia, esaltando tuttavia un gesto nuovo, la pittura che si distende con la forza di una cromia che si dipana e si allarga, fino ad esaltarsi nei neri grumi che tutto consumano.
Su questa scia potremmo collocare Alessio Ottelli, che guarda a Zigaina, ai suoi campi friulani che scivolano verso il mare; ma proprio in questo monotono orizzonte di erbe appena incurvate dal vento, si muove qualcosa, un filo di fumo, un fremito, un alito di vita che non viene più dalla natura, ma dal bisogno della pittura di fissare la verità delle cose che si percepiscono, a volte ai limiti dello sguardo. Si muove Alessio alla ricerca di un appiglio che non trova, di una visione che si rinnova, si muove alla ricerca di un pensiero che non vuole cedere allo scoramento (e alla scomparsa): c’è ancora, poco visibile, visibile per accenni, una natura da ri-trovare?
Più scopertamente lontani da questi paesaggi, in forme diverse, sia Luciano Pea, che vola oltre un orizzonte terreno, per dire al lettore che “il paesaggio è altrove (o forse è solo nella pittura)”; sia Pier Cattaneo, che lo riduce e lo riconduce a pure figure ondeggianti, icone grafiche dai lievi profili.
E’ venuto Luciano, in tempi recenti, a riparlare di paesaggio, consapevole che ormai anch’esso è finito all’interno delle apparenze di un mondo transitorio; proprio per questo, sottolinea il suo ruolo di pittore, pittore che dipinge paesaggi in memoria, poiché solo la memoria, non certamente la bellezza, salverà il mondo. Ecco allora il suo paesaggio ridotto ad icona, una linea che confonde cielo e terra, un astro nel cielo, un bisogno di dichiarare la sua pittura, unica (e residuale) esperienza possibile: di comprensione, di cognizione, di cultura e civiltà dello sguardo.
Sul piano opposto, Cattaneo riduce il paesaggio a puri profili, orizzonti che sembrano contenere il lento muoversi del colle, del pendio, ma diventano corpi, corpi femminili, con il loro erotismo, la sensualità accresciuta della parola non detta, il bisogno di rimarcare un’unica (e ultima) possibile realtà misurabile con lo sguardo; fino a che anche questo paesaggio venga a sparire, riconfondersi in figure lievi che hanno perduto (o sembrano aver perduto) ogni ancoraggio.
Di felicità espressiva occorre parlare a proposito di Roberta di Girolamo; che viaggia nelle atmosfere, residuali immagini possibili, di una pittura che si contrae in se stessa, perché solo così ritrova la sua potenzialità. Non dunque paesaggio (solo in una memoria lontana, che sembra trasferire sulla tela densità emozionali), ma pittura, che parla di se stessa. Difficile condensarlo nei termini descrittivi, considerando che l’autrice muove la sua sensibilità alla ricerca di nuclei espressivi interni al ruolo emotivo della pittura. E tuttavia, difficile non cogliere in queste materie cromatiche, a volte accese fino ai bianchi, a volte accelerate sulla scala cromatica fino al “grido” del rosso, il senso simbolico di una realtà dell’occhio, recuperabile solo attraverso la memoria e il mestiere della pittura.
Pittura che entra in fine, nella città di Alberto Zamboni; una città non distinguibile (quasi una città invisibile alla Calvino). Per tutto il secolo scorso il paesaggio è entrato in noi con la sua anima piena di sussulti e sollecitazioni; diviene ora con Zamboni un paesaggio urbano velato da un irreversibile crepuscolo che sembra tutto attutire e tutto ricondurre ad uno sguardo che si perde nell’inutile tentativo di cogliere una realtà, ormai fattasi impalpabile, fragile come la conoscenza, tenera e struggente come l’emozione, poetica come ogni cosa che possiamo comprendere e definire solo al di fuori della ragione.
Gussago, maggio 2009
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